







Pubblichiamo il contributo di una nostra militante:
Chi insegna sa bene cosa significhi insegnare a distanza.
Sa bene quanto sia fallimentare questa metodologia – posto che possa essere definita tale.
Una metodologia che non può che negare il diritto all’istruzione di bambini e ragazzi ed impedire quella relazione educativa entro cui soltanto può avere senso e può sostanziarsi l’insegnamento.
A marzo dello scorso anno scolastico però chi governa ha detto: “La scuola non si ferma”.
Ad agosto, questo che appariva solo uno slogan, ha trovato la sua legittimazione nelle Linee guida per la didattica digitale integrata, promulgate con decreto dal Ministero dell’Istruzione.
Il male della scuola però, come molti sanno, è precedente la dad.
E’ un male che va dalla legge sull’autonomia scolastica di fine anni Novanta dello scorso secolo passando per la cattiva scuola di Renzi del 2015.
Queste leggi hanno trasformato la scuola così in profondità da renderla aliena anche a chi ha iniziato a lavorare in essa quando il processo era già avviato.
Il burocrate ha preso il posto dell’insegnante.
L’obbedienza cieca e acritica ha preso il posto della libertà di insegnamento, di cui solo alcuni ricordano l’esistenza, pur essendo una delle libertà sancite dalla Costituzione Italiana.
Il ruolo dell’insegnante è andato restringendosi a quello di compilatore di format di varia natura e di distributore di pillole/unità di apprendimento che, nell’ottica del legislatore, dovrebbero fare dell’insegnante un insegnante ‘competente’ e dell’insegnamento, non più affidato alla libertà e alla responsabilità del docente, il contenitore di quella didattica per competenze, utile solo al mercato deregolamentato che ha da trarre profitto dai futuri lavoratori precari.
Il lavoro costante e sistematico fatto in questi vent’anni dai decisori politici ha scavato un fosso così profondo che anche in tempi così difficili per la società tutta, e per i più giovani in particolare, “la scuola non si ferma”.
Il mio malessere dinanzi a tutto questo si è tradotto in un piccolo, per me grande, gesto di resistenza.
Ho voluto mostrare il mio disappunto nei confronti di un agire delirante – caratterizzato dalla convinzione che ciò che conta sono le programmazioni da elaborare, i programmi da seguire, le verifiche da fare, i tempi da rispettare – che non si ferma nemmeno davanti ai morti, davanti ai malati, davanti a chi, e sono tanti, vive situazioni di disagio psicologico e/o socio-economico, aggravatisi ulteriormente in questo periodo.
Ho voluto mostrare e testimoniare il mio disappunto nei confronti del delirio imperante e nei confronti di un modello di scuola in cui non mi riconosco affatto.
Perciò ho deciso di elaborare una programmazione didattico-educativa, molto breve, non allineata alle richieste dell’istituzione, in grado di rappresentare una denuncia nei confronti del presente e del passato della scuola e, nello stesso tempo, in grado anche di alludere ad un possibile, forse mera utopia, ma sola speranza per chi ha a cuore la scuola.
PROGRAMMAZIONE DIDATTICO-EDUCATIVA
La programmazione dell’attività didattico-educativa, che in qualità di insegnante sono tenuta ad elaborare per l’anno scolastico 2020/2021, come ogni programmazione non può prescindere dalla considerazione del contesto in cui l’attività progettata deve essere svolta.
Il contesto in cui ci troviamo in questo momento non è quello “normale” – posto che possa essere definito normale quello precedente all’attuale.
Non è normale per gli alunni, non lo è per gli insegnanti, non lo è per la società nel suo insieme.
Dallo scorso anno scolastico noi insegnanti, i nostri alunni e le loro famiglie siamo impegnati in quella che qualcuno ha definito “didattica a distanza”.
Una definizione rassicurante ma mistificante, dal momento che nasconde quanto è sotto gli occhi di tutti, l’assenza di scuola, e pericolosa, dal momento che intende “normalizzare” tale assenza.
La scuola da marzo non c’è.
Non c’è perché, come tanti pedagogisti, filosofi e psicologi hanno sottolineato, non ci può essere pedagogia, quindi didattica, se non all’interno di una relazione in cui insegnante, alunno e gruppo classe siano presenti, fisicamente presenti, in quel luogo deputato all’insegnamento e all’istruzione che è la classe e la scuola – comunità di apprendimento, luogo di incontro e di crescita per i giovani.
Come afferma Daniele Novara: “La didattica a distanza, ovvero la scuola dietro a un monitor, non consentendo la formazione di una vera comunità di apprendimento che permetta il confronto in carne e ossa (l’assenza dei corpi impedisce infatti quell’osmosi sociale alla base di tutti gli apprendimenti scolastici), non può essere la soluzione”.
Danilo Dolci diceva: “Ciascuno cresce solo se sognato”.
Daniele Novara aggiunge: “Prima di essere sognati bisogna essere guardati, percepiti”.
La didattica a distanza, obbligando i ragazzi a restare a casa, in contesti familiari spesso critici dal punto di vista socio-economico e culturale, all’interno di relazioni familiari talvolta manifestamente disfunzionali, e costringendoli per ore ed ore davanti ad un monitor, li espone a rischi pesanti per la loro salute mentale e fisica.
La didattica a distanza, lungi dal favorire la rimozione degli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana – compito immenso che la Repubblica Italiana ha attribuito a se stessa e che l’art. 3 e 34 della Costituzione sanciscono – contribuisce a far crescere gli squilibri sociali.
Essa non è inclusiva, né per i ragazzi diversamente abili, più che mai bisognosi di relazioni autentiche con insegnanti e compagni di classe, né per chi vive situazioni di svantaggio economico-sociale e culturale.
La didattica a distanza, in una parola, lascia indietro chi si trova già indietro e sancisce le disuguaglianze sociali esistenti.
Se questo è l’orizzonte entro il quale si inscrive la programmazione didattico-educativa che sono tenuta ad elaborare, ciò che posso dire, in coscienza, con l’onestà intellettuale e morale che mi riconosco, è che non mi illudo di poter sostituire l’attività che avrei svolto a scuola con il surrogato ipocrita e profondamente ingiusto della didattica a distanza.
Non mi illudo di potere offrire ai miei alunni quelle possibilità di apprendimento, di crescita, di maturazione, personale e culturale, che avrei potuto offrire loro se avessimo lavorato a scuola.
Programmare contenuti e tempi delle attività, allora, credo non abbia grande senso, come non ha senso stabilire criteri di valutazione che, in un contesto come questo, se applicati, aggiungono ingiustizie ad ingiustizie, se evasi, mostrano la loro fondamentale inconsistenza.
Pertanto, consapevole del ruolo che ricopro nello Stato in qualità di dipendente del Ministero dell’Istruzione, e animata dal senso di responsabilità che tale ruolo mi richiede, dichiaro che, anche in questo momento e in questo contesto così difficili, organizzerò il mio lavoro come sempre ho fatto, con la stessa serietà, lo stesso impegno, la stessa passione.
Cercherò di motivare i miei alunni affinché possano, almeno in parte, conseguire conoscenze disciplinari, sviluppare capacità di analisi, di sintesi e di elaborazione, capacità di ragionare e di argomentare, nonché autonomia di pensiero e spirito critico.
Soprattutto non abdicherò al mio ruolo di educatrice, che mi impone un’attenzione alle persone concrete, nella loro specificità ed individualità, tanto più se in difficoltà.
E per finire, ancora qualche parola di Danilo Dolci:
“C’è pure chi educa, senza nascondere
l’assurdo ch’è nel mondo, aperto ad ogni
sviluppo ma cercando
d’essere franco all’altro come a sé”.