“Mi manca solo lo Statuto Albertino… il testo del ‘47, quello del 2012 e quello Boschi-Renzi ce l’ho!”. Materiali che vanno a ruba; cartelline, volantini che convincono e vengono tesaurizzati con ansiosa voluttà; gratitudine, timori, mani che si stringono, volti che si storcono in smorfie di disappunto, sorrisi che sbocciano nell’alone della prospettiva di un punto e a capo, di un’uscita dall’incubo dell’assedio alla Democrazia, al Diritto, alla Cultura, di una chance di ribaltamento. 22 Novembre: un’intera giornata di dibattito su Scuola e Costituzione e sulle ragioni del “NO” tra e con docenti di ogni ordine e grado, presso la Sala Nugnes di Via Verdi, organizzata dal Cesp, il Centro Studi Scuola Pubblica, ente accreditato dal Miur, e fortemente voluto dai Cobas, con l’inesauribile energia e la “pappeciosa” insistenza che ne connota l’azione sociale, politica e sindacale. I docenti, tantissimi, tanto da esaurire le pur copiose scorte di materiali predisposti, sono venuti da Salerno, Ischia, Avellino, Caserta, Terra di Lavoro, Napoli centro e Napoli provincia; hanno fornito i loro nomi e cognomi per la registrazione al convegno con l’aria preoccupata ma non arresa di chi capisce la posta in gioco in questo referendum, di chi si rammarica che si sia giunti a tanto e che la Scuola sia stata deliberatamente e preventivamente disarmata e balcanizzata per poter giungere a tanto. I molti che avevano capito da tempo si sono seduti, senza livore, accanto a quelli che hanno capito ora e a quelli che si sono da poco avveduti, con la vigenza piena della 107, di essere stati trasformati da docenti pieni di scrupolo e di scrupoli, in impotenti, vessati travet, pieni di obblighi e obnubilanti carichi di stolida fatica, imposta per impedire che si pensi, che si analizzi, che si contesti un sistema ottuso e liberticida. Senza livore, perché si può ancora dire, tutti insieme, l’ultimo fragoroso e responsabile “NO!” alla stucchevole e disonesta richiesta di assenso al già compiuto straccio della Costituzione, vilipesa e rinnegata, con la “Buona Scuola”, il Jobs’ Act e lo “Sbloccaitalia”, nella sua trama valoriale e nel suo intrinseco, etico, irrinunciabile dinamismo sociale. Nella mattinata si sono succeduti interventi “tecnici” che hanno riscosso un grandissimo favore. Ha introdotto i lavori Francesco Amodio, vicepresidente del Cesp e portavoce dei Cobas di Napoli, che ha stagliato i provvedimenti governativi più penalizzanti per la Scuola sullo sfondo degli accordi politico-economici siglati a partire dalla metà degli anni ‘90, un’operazione non scontata, se si riflette sulla volontà governativa di presentare l’asservimento della Scuola agli interessi di un Mercato olistico e onnivalente come un’esigenza legata alla “deideologizzazione” dell’istruzione (come se fosse cosa possibile!) e alla sua “efficientizzazione” nella direzione della selezione e dell’addestramento alle dinamiche d’azienda, ai vaucher, alla precarietà strutturale e permanente da accettare col sorriso sulle labbra. Ludovico Chianese, con una relazione esemplarmente strutturata e appassionatamente esposta, ha eziologicamente ricostruito il clima ideologico e politico dell’Italia della Costituente, non senza aver illustrato i margini operativi che a livello giuridico, strategico e diplomatico restavano a quanti si disposero all’arduo compito di trovare il più alto punto di mediazione possibile, allo scopo di redigere un testo capace di garantire in ogni caso il reciproco controllo degli organi istituzionali. Una disamina attenta, condotta sine ira et studio, dei testi costituzionali, dallo Statuto Albertino alla Renzi-Boschi, passando per le numerose modifiche apportate fino al 2012 alla Carta fondamentale degli italiani, tra cui si annovera l’introduzione, nell’articolato, del pareggio di bilancio, cioè di una teoria economica tradotta inusitatamente in precetto normativo e cogente, ha abilitato i presenti a dedurre naturaliter l’inconsistenza, la pericolosità e la parzialità del testo su cui il governo, che dovrebbe essere imparziale, si sta sbilanciando con una campagna imperniata su un ottimismo genericamente progressista e “svecchiante”, che infantilizza e offende i cittadini. Ha parlato a lungo, Ludovico, docente di Storia e Filosofia, presentando testi e documenti, leggendo epistole, riportando episodi significativi e accordi non registrati nei libri di Storia; per più di un’ora l’uditorio è rimasto attentissimo e ha interagito, a tratti, con il relatore, di cui ha apprezzato la profonda conoscenza delle fonti e il loro vaglio critico, effettuato secondo un approccio metodologico condivisibile e convincente. A seguire, sono intervenuti Ferdinando Goglia ed Elena Ciotola, docenti di Lettere nella Scuola Media di primo grado. Il primo, con l’aiuto di diapositive, ha mostrato inequivocabilmente che la convergenza sul testo della Costituzione del dopoguerra fu assai ampia e data da esponenti politici dotati della massima rappresentatività, laddove il testo su cui ci si esprimerà il 4 Dicembre prossimo è gradito solo a una parte dell’attuale maggioranza, nominata sulla base di una legge dichiarata non conforme al principio di uguaglianza tra elettori che la Costituzione garantisce. Il prof. Goglia si è accoratamente e pubblicamente interrogato, poi, suscitando empatiche reazioni da parte della platea, sul dramma coscienziale dei docenti costretti, in caso di vittoria del “sì”, a presentare agli alunni una Costituzione non rispondente ad un ideale concordato e democraticamente negoziabile di vita associata, ma tarata sulla necessità di estromettere il popolo dalla scelta politica, riducendo la dialettica parlamentare all’egolatrico monologo di un esecutivo blindato e decisionista. La prof.ssa Ciotola ha insistito sull’obbligo etico e culturale della platea e degli insegnanti in generale, in questa cruciale congiuntura storica, di superare il tecnicismo giurisprudenziale e i ragionamenti tutti interni alle dinamiche del settore Scuola, per affissare lo sguardo su quei provvedimenti governativi, quali, ad esempio, quelli relativi al saccheggio ulteriore e doloso dell’ambiente e, quindi, alla soppressione del diritto alla salute, che la nuova Costituzione renderebbe irreversibili nella loro drammatica incidenza, portando la sua lunga esperienza di docente in zone “ad alto rischio ambientale”, in cui il degrado del paesaggio e la consapevolezza del marchio di deteriorità impresso sul territorio per precisa scelta politica è uno dei presupposti dell’abbandono scolastico e della disaffezione allo studio. Non è mancato un momento di riflessione sulla Scuola elementare, a cura di Camilla Aiello, che ha rimarcato i guasti delle riforme Moratti e Gelmini, specie in relazione al “taglio” violento dei programmi di Storia, che negano ai bambini la conoscenza di fatti storici utili a contestualizzare la stesura della Costituzione, differendone in modo deleterio l’assimilazione di concetti essenziali allo sviluppo della coscienza civica e politica, artatamente sostituita, nella “scuola dei mille progetti”, da un ipocrita buonismo e da una vacua nozione di “legalità”, sostanzialmente consistente nell’invito ad accettare e mantenere lo status quo, deplorando paternalisticamente le “devianze” e ricollegandole ad un fatalistico innatismo. Ha chiuso la mattinata di discussione Marcella Raiola, che ha evidenziato le antinomie insite nel testo della legge 107, biunivocamente corrispondenti all’adozione di una forma sciatta e atta a generare ambiguità interpretative che consentono ai dirigenti scolastici di ampliare a dismisura il margine di discrezionalità rispetto alle prerogative del Collegio e alla relazione con tutte le componenti della Scuola. L’insegnante ha anche additato il paradosso in cui incorrono i sostenitori del “sì”, che accusano la controparte di ipostatizzare la Costituzione vigente mentre essi adorano il dio Mercato, cui ritengono indispensabile sacrificare vite umane a migliaia e diritti imprescrittibili; di essere conservatrice, mentre essi postulano la cristallizzazione della società in caste separate, dal momento che proclamano che non ci sarebbero più le risorse per garantire emancipazione ai meno fortunati; di essere collusa con forze antidemocratiche, mentre essi accettano una revisione costituzionale operata da personaggi più volte inquisiti per vari reati. La sessione pomeridiana del Convegno, più squisitamente politica, è stata ancora più affollata e molto briosa; Piero Bernocchi, portavoce nazionale Cobas, ha riconosciuto la vitalità “eslege” della Napoli dei movimenti e del Sindaco De Magistris, confidando con sufficiente margine di sicurezza nella vittoria del NO ma restando scettico riguardo alla possibilità di ricomporre, in un popolo ormai preda del più volgare qualunquismo – un popolo di “penultimi” che scaricano la loro frustrazione impotente sugli ultimi (specie immigrati) – un minimo di solidarietà civile, di sostanza culturale e di complessità analitica e programmatica. Il Sindaco De Magistris, che, intervenendo per primo, aveva parlato di sovvertimento della gerarchia delle fonti del diritto da parte di un governo che ha intrapreso la sistematica rimozione della Costituzione tramite legiferazione ordinaria, nonché della speciosità dell’epiteto “ribelle” associato ai movimenti e alle istituzioni di Napoli, che invece si integrano allo scopo di riportare al centro della comunità il rispetto di una legalità che non sia copertura legalistica di un interesse di parte, ma autentico rispetto delle procedure e delle priorità amministrative e sociali dei territori, ha fatto orgogliosamente e simpaticamente da contrappunto alla descrizione di comportamenti e atteggiamenti intrisi di razzismo e insofferenza verso i “diversi” e i migranti fatta dal romano Bernocchi. “Tenimmo tanta probleme, a Napule”, ha detto in tono amichevole e con fierezza verace, “ma chisto proprio no”. Piero Bernocchi ha accettato giocosamente la provocazione, auspicando che sia feconda di risultanze politiche l’attuale narrazione della Napoli resistente, oasi di contrastiva disobbedienza ai diktat della finanza strozzina e strozzante recepiti supinamente dal governo italiano, annunciando che, in caso di necessità stringente, Napoli potrebbe diventare l’asilo e il rifugio necessitato e felice di migliaia di renitenti al renzismo, che vi si trasferirebbero trasformandola in una metropoli con tanti milioni di abitanti quanti Il Cairo! La platea è esplosa in un divertito applauso, ma nel cuore dei napoletani presenti c’era molto di più che un momentaneo sollievo dall’angoscia di questi giorni, determinato dal pimpante scambio di battute: c’era la consapevolezza dell’immane responsabilità che la città di Napoli ha voluto addossarsi, assumendosi gravi rischi e oneri; c’era l’eco di un’altra Resistenza che non poteva essere tradita e che ha chiamato Napoli a dare nuovamente l’esempio al resto del paese; c’era l’istinto di focolare di un popolo che cerca di mantenere l’ospitalità nel codice genetico, un popolo nel cui stemma si potrebbe incidere il noto motto: “addo’ stanne ‘dduje, stanne pure tre e addo’ stanne tre, stanne pure quatte”. Splendido anche l’intervento sorprendentemente atecnico del costituzionalista Massimo Villone, che ha ripercorso le tappe della lotta degli insegnanti riconoscendo alla Scuola un ruolo trainante nella protesta antigovernativa e giustificando i reiterati fallimenti a partire dal cedimento strutturale delle istituzioni e dei meccanismi che fino a qualche decennio fa presiedevano alla regolamentazione del dialogo tra istituzioni e articolazioni sociali. Il professore ha ribadito un concetto cardinale per la destituzione di fondamento e di credibilità della “de-forma” renziana, e cioè che la qualità della legislazione è data dalla qualità culturale, etica e umana dei legislatori, che non sarebbe assicurata dal reclutamento della classe politica previsto dalla riforma, specie con riferimento al Senato. Come a dire che la Democrazia “tiene” finché tiene il silenzioso accordo tra cittadini capaci di comprenderne e orientarne il funzionamento nel dettaglio e amministratori o rappresentanti che riconoscano come limite invalicabile il mandato ricevuto e l’ossequio verso le forme, che sono l’essenza delle norme. Ha concluso, in bellezza, il professor Giuseppe Aragno, storico attualmente impegnato in una ricerca devoluta allo scopo di dissipare il luogo comune del protagonismo esclusivo e dilettantesco degli “scugnizzi” delle famose 4 Giornate di Napoli e di dimostrare l’esistenza di una rete di partigiani, professionisti, operai, studenti e artigiani, che capillarmente agì sul territorio, istruendo alla guerriglia perfino le casalinghe, proteggendo feriti o ricercati e preparando quella sollevazione grandiosa che ancora ci commuove e ci fornisce un paradigma da recuperare e rievocare quando la Storia torna a farsi buia. Aragno ha negato legittimità al governo, sottolineato il ruolo svolto da Napolitano nella sua permanenza e nell’incancrenirsi dei procedimenti lesivi del corpo e dello spirito della Costituzione; ha poi messo in guardia circa la possibilità di sdoganamento “a catena”, se passasse il “sì”, di una serie di provvedimenti restrittivi che andrebbero anzitutto a toccare le libertà personali, come quella di pensiero ed espressione. Un discorso, il suo, denso di chiarificazioni e di prefigurazioni tragiche, che la fenomenologia dell’arrogante strapotere renziano, sicuramente non luciferesca e sanguinaria quanto quella delle numerose ed atroci dittature di cui serbiamo dolorosa memoria, non deve espungere dal nostro orizzonte, perché abbiamo constatato più volte quanto l’involuzione culturale e istituzionale possa essere rapida e quanto la repressione possa farsi disumana.
Un Convegno, dunque, quello del 22 novembre, densissimo di spunti e di pulsioni, che rilancia il ruolo del CESP come spazio autorganizzato, dichiaratamente e serenamente “politico”, in cui perseguire l’elaborazione e il potenziamento qualitativo della didattica e della professionalità docente. Proprio con questo intento, infatti, Bernocchi ha proposto di trasformare questo ente in uno strumento di più fitto e frequente confronto su quelle tematiche che ormai sono diventate tabù nella Scuola, ovvero che sono state espunte dalle finalità puramente performative che costituiscono il nuovo e squallido obiettivo generale dell’istruzione. Tante le tematiche che è necessario escerpire dai progettini fasulli e approfondire con reale volontà di incidere sulla vita e sulla crescita degli studenti, dalla violenza di genere alla psichiatrizzazione o medicalizzazione del disagio mentale e sociale; dalla indotta repulsione per la “diversità”, specie sessuale, alle metodologie di approccio ai saperi umanistici. Il Cesp si candida a diventare, in caso di vittoria del sì, uno degli spazi coscienziali e fisici della nuova resistenza e, nel caso dell’auspicata vittoria del NO, uno dei luoghi in cui recuperare il ruolo che la 107 ci ha strappato. In ogni caso, un luogo per ritrovarsi. E per non perdersi.